Sin dal momento della nascita della pubblicità, qualsiasi tipo di advertising viene prodotto e diffuso con uno scopo ben preciso: scatenare una reazione nel consumatore.
Di che tipo? Nella maggior parte dei casi l’obiettivo principale è quello di entrare nelle fasi del buyer’s journey e condizionare la decisione di acquisto dell’utente.
Ma non solo: le grandi aziende hanno cominciato ad utilizzare la pubblicità come mezzo per aumentare la propria brand awareness, veicolando un tipo di messaggio che non punta direttamente e solamente alla vendita di un prodotto.
Questo avviene soprattutto nel mondo digital, dove il sogno di ogni marketer è principalmente uno: il loro contenuto pubblicitario diventi virale.
Ormai sembra quasi che la vendita del proprio prodotto o servizio sia passata in secondo piano, lasciando spazio ad una nuova e unica regola: “Non importa che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli” come diceva il saggio Oscar Wilde.
Ed è proprio questo il problema!
I brand sono così preoccupati che si parli di loro sul web, che la qualità del messaggio trasmesso perde quasi del tutto la sua importanza.
Dalla scelta discutibile di un influencer, all’utilizzo del mezzo di comunicazione inadeguato fino alla creazione di un vero e proprio epic fail: continuano a spuntare esempi pessimi di pubblicità, che però riescono a diventare virali proprio grazie al loro inadeguatezza.
Annunci, spot e campagne velate di razzismo, xenofobia, omofobia, maschilismo, condite dei peggiori clichés e stereotipi : viene spontaneo domandarsi se alcuni marketers prendano troppo alla leggera temi evidentemente sensibili, oppure producano di proposito un tipo di advertising con l’obiettivo di attirare l’attenzione, anche se negativa, sul brand.
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Avv. Daniela Pasquali
Dott. Enrico Palazzi